Stagnazione secolare? Stabilità secolare, piuttosto

Di Eric Lonergan, gestore del team Multi-Asset di M&G Investments

La caratteristica distintiva dei dati economici statunitensi dai tempi della crisi finanziaria non è la stagnazione, ma la stabilità. Tutti guardiamo indietro alla “Grande Moderazione” con incredulità di fronte alla hubris degli economisti. Ma la realtà ora si è trasformata nella “Più grande moderazione” in assoluto?

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C’è sempre stato un fondo di verità nella Grande moderazione. Il rischio economico ciclico associato all’inflazione in effetti è stato eliminato. La straordinaria proprietà dell’inflazione degli ultimi 20 anni è stata la totale indifferenza agli shock e ai cambi di politica. Pochi economisti avevano ipotizzato che l’inflazione di fondo si sarebbe mossa appena in risposta a fluttuazioni dei prezzi petroliferi da 10 a 150 dollari, o che la base monetaria sarebbe cresciuta al ritmo più rapido di sempre, raggiungendo quote di PIL mai viste (anche se quest’ultimo sviluppo si era già verificato in Giappone).

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L’ossessione mai sopita degli economisti per le curve di Philips e l’idea meravigliosamente ingenua che le banche centrali possano raggiungere gli obiettivi di inflazione prescelti rivelano la negazione persistente di questo fatto essenziale. L’inflazione è morta e le autorità non devono preoccuparsene.

Ma questo era vero prima della crisi. Ora tutti sappiamo che i problemi di inflazione non sono la sola fonte di rischio ciclico: la leva e la carenza di liquidità nel sistema bancario possono rivelarsi ancora più perniciosi. Ma cosa fanno gli esseri umani dopo aver subito un trauma spaventoso? Cercano di prevenire che accada di nuovo.

Combattere le battaglie di ieri

Anche se non si direbbe, considerando la dilagante tensione post-crisi e la complessità di norme come la Dodd-Frank e Basilea III, prevenire il panico nel sistema bancario è relativamente semplice. Gli indici di liquidità elevati limitano le corse agli sportelli e gli alti coefficienti di capitale limitano i default. Come ha detto di recente l’esponente della Fed Stanley Fischer, gli Stati Uniti hanno adottato varie misure significative per raggiungere questi obiettivi, in un processo volto a incrementare la stabilità del sistema bancario.

Hong Kong è un caso di studio. Si tratta di una “economia Taleb”: è antifragile in quanto progettata per creare volatilità. Ancorando il proprio dollaro a quello statunitense, Hong Kong ha fatto diventare le folli oscillazioni dei prezzi degli asset, in particolare immobiliari, una caratteristica strutturale della sua economia. Non si potrebbe costruire un’economia più soggetta all’alternanza boom-crolli. Tanto vale fissare i tassi d’interesse a caso. La crescita del PIL è dettata dalla Cina e i tassi del mercato monetario dagli Stati Uniti. Di conseguenza, l’Autorità monetaria di Hong Kong ha sempre mantenuto i coefficienti di capitale e di liquidità più alti di tutto il mondo sviluppato. Il trauma risale ai primi anni Ottanta ma il Paese è sopravvissuto alla crisi asiatica senza eventi bancari di rilievo.

Ma allora, cosa succede a un’economia che ha un sistema bancario ben regolamentato e niente inflazione? Non è necessario fare congetture. L’Australia è l’esempio ovvio.

Non subisce recessioni da 25 anni (e prima che qualcuno dica “Cina”, ricordatevi che l’Australia ha tenuto testa alla crisi asiatica, alla Grande crisi finanziaria e al ciclo boom-crollo delle commodity, mentre i nuclei familiari erano tra i più indebitati al mondo).

Gli Stati Uniti hanno avuto il loro brusco risveglio. La Grande recessione ha gettato le basi della stabilità secolare. L’inflazione è più morta che mai e il rischio di una crisi finanziaria è crollato: gli indici di liquidità sono i più alti della storia e i coefficienti di capitale sono elevati, ma la Fed e tutti gli altri enti regolatori che hanno vissuto quei mesi terrificanti nel 2008 sono ancora pietrificati dalla paura che accada di nuovo.

La stagnazione è il prezzo che paghiamo per la stabilità?

Mentre il periodo più lungo di crescita ininterrotta dei posti di lavoro nel settore privato prosegue negli Stati Uniti, e la probabilità di recessione svanisce, il prezzo della stabilità secolare è inevitabilmente un ritmo di crescita lento?

Assolutamente no. Almeno a giudicare dall’Australia, ma anche la logica e l’evidenza empirica lo confermano. Marty Feldstein ha ribadito le vecchie argomentazioni riguardo all’inflazione gonfiata (non era del 1996 il Rapporto Boskin?) e alla crescita del PIL reale di conseguenza superiore a quella misurata. Boskin suggeriva che la crescita reale fosse più alta dell’1% a quella rilevata.

Sempre stato così. Diffidate degli economisti che propinano statistiche sulla produttività e leggete il capolavoro empirico ‘Paradox lost?’ di Bryjolfsson e Hitt se avete ancora qualche dubbio.

L’osservazione che colpisce di più è che dovremmo temere la tecnologia che ci ruba il lavoro e contemporaneamente la stagnazione secolare. I fatti dicono che è vero il contrario su entrambi i fronti: stiamo assistendo a una innovazione rapida e contemporaneamente alla quasi piena occupazione.

Quanto ai dati sulla produzione, aspettate almeno altri 20 anni prima di credere a quello che dicono gli statistici. Ovviamente le misurazioni hanno sempre avuto aspetti problematici, ma questo non cambia il fatto che una crescita reale dello 0% è “stagnante” e una crescita reale del 3% si accumula rapidamente! Peraltro ci sono buoni motivi per credere che i problemi di misurazione siano più gravi che in passato: la quota del PIL riconducibile al settore dei servizi è aumentata e la natura degli investimenti è cambiata profondamente. La maggior parte degli investimenti effettuati attualmente non viene neanche considerata come spesa per immobilizzazioni. La stabilità crea instabilità. Ma a quanto pare, è vero anche il contrario.

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