Tassi più alti, mondo ancora in piedi

A cura di Alessandro Fugnoli, Kairos Partners
Narra nel suo Chronicon Sigeberto di Gembloux che nei giorni che precedettero l’anno Mille dall’Incarnazione si videro molti prodigi, uno spaventoso terremoto e una orribile cometa folgorante dalla forma di serpente la cui luce inondò il mondo intero, penetrando fin dentro le case. Sigeberto, nato nel 1031, non parla per esperienza diretta dell’attesa della fine del mondo che aveva segnato la generazione precedente. Non ci descrive nemmeno quale fu la reazione dell’Europa cristiana nel constatare, all’alba del nuovo millennio, che il mondo c’era ancora. Possiamo solo immaginare che il sollievo fu reso ancora più grande dal tepore di quel giorno. Il mondo stava infatti attraversando una fase di riscaldamento globale che era iniziata da cinquant’anni e che si sarebbe protratta fino al 1100.
E sollievo prova il mondo anche oggi dopo il rialzo dei tassi americani, in un giorno di un inverno particolarmente caldo che aggiungerà qualche decimale alla crescita del Pil dell’emisfero boreale e toglierà qualche altro dollaro al prezzo del petrolio e a quello che spenderemo per il riscaldamento.
È stato notato che la Fed ha agito in un contesto di mercato per alcuni aspetti peggiore rispetto a quello di settembre, quando il rialzo fu rinviato all’ultimo momento. Le materie prime, da allora, sono scese del 14 per cento e i bond ad alto rendimento si trovano sugli stessi livelli di spread su cui venivano scambiati tre settimane dopo il fallimento di Lehman Brothers, in un contesto, cioè, in cui il mondo sembrava davvero prossimo al crollo.
Che la Fed abbia agito per impazienza, per puntiglio o perché a furia di sfinire tutti con avvertimenti sulla stretta imminente aveva sfinito anche se stessa, sta di fatto che il centodiciannovesimo rialzo dal dopoguerra ha trovato i mercati perfettamente preparati o, comunque, rassegnati. E così, senza che la Yellen abbia nemmeno dovuto esagerare con i toni rassicuranti, il mondo accoglie il rialzo come una liberazione. Il lutto è stato elaborato in anticipo e chi doveva pagare ha già pagato.
Nonostante tutto l’eccezionalismo sui tempi nuovi e sulla stagnazione secolare che ci affligge, la reazione dei mercati all’inaugurazione della stagione dei rialzi non è stata finora così diversa da quella dei cicli passati e delle generazioni precedenti.
Storicamente, infatti, l’avvio dei rialzi non ha mai comportato la caduta generalizzata di tutti gli asset finanziari e reali, ma ha sempre comportato, questo sì, la caduta di alcuni comparti (o perché intrinsecamente deboli o perché troppo speculati in precedenza). In altre parole, i rialzi pongono fine al rialzo indiscriminato, la grande onda che solleva i transatlantici come le barchette, i solidi e i fragili tutti insieme. Sono solo i rialzi tardivi, quelli bruschi e violenti che si fanno quando l’inflazione è già partita e appare inarrestabile, che interrompono la festa per tutti e danno inizio a una recessione.
Di regola, dunque, quando le banche centrali mettono il piede sul freno dell’auto, c’è sempre qualche passeggero che, non avendo allacciato la cintura di sicurezza, picchia la testa contro il parabrezza e si fa male. Gli altri subiscono semplicemente un modesto contraccolpo.
A picchiare la testa sono innanzitutto i soliti sospetti, quelli che si vanno subito a prendere nelle retate di polizia. Gli emergenti, quindi, e le obbligazioni ad alto rendimento. Alcuni di questi soggetti, ingiustamente accusati, vengono rilasciati nelle settimane e nei mesi successivi, molti vengono rinviati al giudizio severo del bear market. I soggetti innocenti, questa volta, sono stati trattati con particolare brutalità e offrono un’occasione d’acquisto. Alcuni fondi chiusi di junk bond trattano a sconti che sono arrivati fino al 20 per cento sul patrimonio investito, già svalutato di suo.
La novità di questa volta è che la polizia di mercato ha risparmiato i governativi fragili del mondo sviluppato, a dire il vero più per la protezione delle rispettive banche centrali che non per meriti propri. Non si è ripetuta la caccia alle streghe del 1994-95, quando l’avvio del rialzo dei tassi portò a cadute pesanti sui titoli di stato di Svezia, Canada e Italia, considerati addirittura a rischio di default. Nemmeno si è rivissuto il bear market governativo del 1998-99, anch’esso in corrispondenza di un nuovo ciclo di rialzo dei tassi.
Nessuna conseguenza, e anche questa è una novità, anche per la parte lunga della curva governativa americana. Solo la parte breve e media sta reagendo, mentre il decennale rimane tranquillo e così rimarrà finché non ci sarà la prova provata che l’inflazione sta risalendo davvero.
Nelle settimane passate ha preso a circolare l’idea che siamo vicini alla fine del ciclo economico. Non siamo d’accordo per due motivi. Il primo è che le recessioni arrivano in punta dei piedi e nessuno è in grado di prevederne i tempi e i modi. Il secondo, più solido, è che, onestamente, non ci sono segnali significativi in questa direzione.
L’America mantiene infatti la sua velocità costante del 2 per cento, il Giappone appare stabile e l’Europa ha addirittura spazio per una modesta accelerazione l’anno prossimo. La Cina, a conti fatti, rispetterà l’obiettivo di crescita del 7 per cento su cui si potrà fare un po’ di tara, ma senza esagerare. Gli emergenti, dal canto loro, vanno male da un paio d’anni, mentre il 2016 si profila meno negativo del 2015.
Se non siamo a fine ciclo la parte sana del mercato non ha da temere nulla di tragico. La crescita degli utili, da qui in avanti molto lenta e modesta (quanto meno in America), avrà infatti di fronte una crescita dei tassi altrettanto lenta e modesta. Prepariamoci però a una maggiore volatilità, perché il clima nevrotico di attesa del prossimo rialzo dei tassi diventerà la regola.
Nel passato i cicli di rialzo erano ordinati come le battaglie del Settecento, quando la prima fila avanzava, si inginocchiava, sparava, lasciava il posto alla seconda fila e così via. Greenspan alzò i tassi per 25 volte di seguito a ogni riunione del Fomc, sole, vento o pioggia che fosse. Si pensava allora di dare in questo modo un quadro certo ai mercati e di alleviarne l’ansia.
Questa volta la Fed agirà con tecniche di guerriglia, guardando i dati uno per uno e guardandone di tanti tipi. Sarà cioè discrezionale e quindi, per certi aspetti, imperscrutabile. Allungando o accorciando i tempi tra un rialzo e l’altro a seconda dell’andamento dell’economia (questa volta globale, non solo americana) si darà in teoria stabilità ai mercati, perché il disappunto per un dato brutto verrà alleviato dal probabile rinvio del rialzo, mentre un dato buono avrà festeggiamenti brevi perché avvicinerà il rialzo.
In pratica questo modo di operare, per quanto forse obbligato, sarà ansiogeno e nevrotizzante. In compenso l’aumentata volatilità troverà spazio per le sue veloci scorribande entro una banda d’oscillazione non troppo ampia. Chi non se la sentirà di addormentarsi la sera con un certo valore del portafoglio e di alzarsi la mattina con un valore molto diverso farà bene a ridurre l’esposizione complessiva. Dormirà meglio e avrà la possibilità di partecipare con qualche soldo alle scorribande dal lato dell’attaccante e non da quello della vittima.
Più qualità nel nucleo duro dei portafogli, dunque, per assorbire meglio la maggiore volatilità. Alle qualità basse (emergenti, alto rendimento) andrà riservata una piccola parte satellite nella quale raccogliere di tanto in tanto le vittime innocenti dei ribassi.
Ora che è finita la delicata fase di preparazione del rialzo, il dollaro, nei giorni scorsi inchiodato artificiosamente a 1.10, avrà più spazio di manovra. Non crediamo però a grandi oscillazioni fino a quando l’America non avrà dimostrato di sapere assorbire bene il rialzo dei tassi. Andare oltre significherebbe togliere spazio al 2016.

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