Tensioni in Medio Oriente, quali impatti sui mercati?

A cura di Olivier De Berranger, Chief Investment Officer di La Financière de l’Echiquier

L’escalation tra Iran e Stati Uniti suscita il timore di un grave conflitto in una regione già instabile. Anche se in quell’area i conflitti sono frequenti – scatenati da motivi religiosi, etnici o strategici – l’uccisione di un generale iraniano in Iraq ci fa temere che la prima potenza militare a livello mondiale e la Repubblica Islamica possano scontrarsi.

La probabilità, tuttavia, di un conflitto aperto tra l’Iran e gli Stati Uniti sembra molto bassa visto il palese squilibrio nel rapporto di forza tra le parti. Dopo anni di embargo e di sanzioni economiche il regime iraniano ha una sola forza armata, considerata relativamente debole e superata rispetto a quelle dello Zio Sam. Inoltre, Trump ha fatto del rimpatrio dei suoi soldati un obiettivo imprescindibile del suo mandato. Uno scontro sembra tanto più improbabile dal momento che Trump, su questo fronte, sarebbe isolato e non potrebbe probabilmente contare né sull’ONU né sulla Nato. Infine, la rivoluzione dello shale oil ha permesso agli Stati Uniti di essere autosufficienti ed esportatori netti di petrolio. L’interesse strategico, politico ed economico di una tale operazione sembra quindi limitato.

Anche se l’ipotesi di un conflitto può non sembrare molto credibile, l’imprevedibilità dei belligeranti non ci consente di escluderla completamente. Cerchiamo quindi di immaginare quali potrebbero esserne le conseguenze economiche e finanziarie.

L’impatto pi diretto dovrebbe consistere in un aumento significativo del prezzo del barile, accompagnato da un maggior interesse per i beni rifugio, l’oro in primis. Si stima che un quinto delle esportazioni mondiali di petrolio transiti dallo Stretto di Hormuz, ovvero il 41% delle importazioni cinesi. Un blocco dello stretto comporterebbe un’impennata immediata dell’inflazione anche se, rispetto al passato, le dimensioni dello shock sarebbero certamente più contenute. La flessibilità derivante dallo sfruttamento dello shale oil rispetto ai pozzi tradizionali consentirebbe infatti di mitigare un possibile shock produttivo: lo scisto americano presenta il doppio vantaggio di una messa in produzione in tempi rapidi a fronte di un investimento ridotto. Tra l’altro, un’impennata del petrolio potrebbe anche avere un risvolto ecologico virtuoso in quanto accelererebbe la transizione energetica e renderebbe quindi le energie rinnovabili più interessanti dal punto di vista economico.

Per le imprese della regione, in gran parte legate al settore energetico e finanziario, le ripercussioni in borsa potrebbero essere significative. Tuttavia, rappresentano solo una piccolissima minoranza tra le maggiori aziende mondiali: a parte Saudi Aramco, la compagnia petrolifera saudita entrata in borsa qualche mese fa, nessuna società quotata nella regione è tra le prime 250 del mondo in termini di fatturato.

Infine, le conseguenze sulla fiducia delle imprese e delle famiglie potrebbero essere non neutrali. Del resto, l’impatto maggiore si potrebbe registrare sull’economia e sulla valorizzazione degli asset finanziari anche se le banche centrali e i governi utilizzerebbero tutto il loro arsenale di misure di stimolo monetario e fiscale per attutire uno shock di questa portata.

Benché la situazione possa sembrare delicata bisogna mantenersi razionali. Ed è con questo stato d’animo che i mercati hanno reagito agli ultimi eventi e, del resto, il petrolio è nel frattempo tornato sui livelli precrisi.

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