Osmani (Martin Currie): “Titoli FAANG sopravvalutati, a parte Amazon”

“Il Covid-19 e il conseguente lockdown hanno frenato l’economia globale, costringendo molte aziende a interrompere le proprie attività. Adesso, con il graduale allentarsi delle misure restrittive, le imprese si trovano ad affrontare tutta una serie di sfide per riprendere il passo e riconsolidare la loro clientela. Questo periodo è stato invece favorevole per alcune realtà e, in particolare, i cosiddetti FAANG (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google) hanno sperimentato un’importante ascesa con lo scoppio della pandemia di Covid. Il lockdown ha reso questi titoli ancora più attraenti, garantendo loro un ruolo sempre più importante nei portafogli di molti investitori. Ma quando la vita ritornerà verso la normalità, sarà ancora opportuno puntare su questi giganti tech?“. A porre l’interrogativo è Zehrid Osmani, Head of Global Long-Term Unconstrained di Martin Currie (affiliata Legg Mason).

Una rapida occhiata ai prezzi delle azioni dei cinque FAANG mostra che, esclusa la holding di Google, Alphabet, tutte sono scambiate a livelli record, con rialzi importanti da inizio anno. Ma quanto possono crescere ancora? Si tratta di una domanda fondamentale, perché il rischio è che queste aziende, favorite dal lockdown, abbiano attratto troppe scommesse favorevoli da parte degli investitori. Sembra lecito chiedersi quale prezzo dovrebbero avere in futuro, ora che cominciamo a uscire dalla fase più dura della pandemia.

Per almeno una di loro, l’orizzonte è davvero roseo: Amazon. L’azienda di Bezos continua a garantire grande potenziale di investimento di lungo termine e, soprattutto, un profilo di rischio più rassicurante. Il colosso dello shopping online può sfruttare dei trend di crescita strutturale molto potenti e domina in alcuni settori, mentre il management continua a investire miliardi nel far crescere il business. Crediamo che il pricing di Amazon rimanga attraente, persino a questi livelli.

Le altre quattro, invece, hanno di fronte uno scenario più incerto. Facebook sembra essere in continua espansione, con le acquisizioni di WhatsApp e Instagram e il recente lancio di Facebook Shops. Tuttavia, gli investitori dovrebbero essere prudenti perché è difficile prevedere quanto la piattaforma possa essere colpita da future iniziative di regolamentazione, e se il business model della società permetterà una crescita sostenibile degli utenti.

Google si trova in una situazione simile. L’azienda, infatti, deve affrontare le attenzioni crescenti da parte degli enti regolatori in tema di violazioni sull’uso dei dati, problemi di privacy ed elusione fiscale. Esporsi a fattori così poco prevedibili è piuttosto rischioso, data l’impossibilità per gli investitori di quantificare l’impatto che una modifica alle normative o alle regole fiscali potrebbe avere sulla valutazione della società.

Anche Apple e Netflix presentano diversi rischi che non sono riflessi nei prezzi elevati delle loro azioni. Apple è in genere una presenza gradita in molti portafogli, ma c’è la possibilità che il suo ben noto potere di pricing venga messo in discussione, in particolare per quanto riguarda i telefoni e i tablet, con rivali come Samsung che vanno ad attaccare Apple all’interno del suo mercato. Questi competitor stanno creando prodotti alternativi a costi più bassi, il che comporta che il pricing power dell’azienda è sempre a rischio di erosione.

Infine, arriviamo a Netflix. Per ovvie ragioni, molti investitori hanno guardato Netflix con favore negli ultimi mesi: l’azienda viene percepita come favorita dallo scenario attuale – si pensi all’esortazione a “restare a casa” – ma la pressione competitiva a investire in contenuti sempre nuovi è incessante, e pesa sul potenziale di ricavi futuri. Questa dinamica e la forza dei competitor nel settore – siano questi la Disney o Amazon Prime – potrebbero, nel lungo periodo, ostacolare i ricavi di Netflix.

Insomma, facendo lievitare fino a livelli vertiginosi i prezzi dei titoli di queste aziende, che stanno lottando per rimanere sul loro trono, gli investitori potrebbero essersi esposti – senza rendersene conto – a rischi più alti di quanto pensino.

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