Tra Cina e Fed, l’ora della verità nella strategia di investimento

a cura di Didier Saint-Georges, Membro del Comitato Investimenti e Managing Director di Carmignac

Dopo aver attribuito particolare importanza alla crescente fragilità dei mercati finanziari dall’inizio dell’anno, era inevitabile che prima o poi una scintilla desse fuoco alla miscela altamente esplosiva formata da mercati sostenuti da cinque anni da banche centrali sempre più deboli e da una crescita globale impossibilitata ad accelerare. Questa scintilla, la decisione della Banca Centrale cinese, l’11 agosto, di svalutare di qualche punto percentuale il Renminbi, è stato un semplice catalizzatore. Sebbene la crescita cinese sia fortemente rallentata (non è certo uno scoop), non ci sono per ora dati attendibili che indichino che sia crollata recentemente e che sia atta a innescare una banale svalutazione competitiva. Il nodo della questione è più complesso e anche più esplosivo. Consiste nella collisione tra la transizione generale guidata dagli Stati Uniti verso la sospensione dei provvedimenti urgenti lanciati nel 2009 e quella della Cina, che mira a un’evoluzione a marce forzate verso una profonda ristrutturazione della propria economia e l’apertura dei mercati finanziari. L’ingente immissione di liquidità nel sistema finanziario globale, che da sei anni ha consentito l’impennata del prezzo degli asset finanziari (+200% per l’indice S&P500 rispetto ai minimi del 2009), l’espansione delle riserve valutarie cinesi e una compressione senza precedenti dei tassi d’interesse, ha raggiunto i suoi limiti.

Gli effetti della sospensione del quantitative easing da parte della Fed da ottobre 2014, e dell’inevitabile crescita della bolla del credito cinese, iniziano a diffondersi nel sistema finanziario in un momento in cui l’economia globale resta instabile e l’economia cinese rallenta. Tale inasprimento delle condizioni di liquidità globali, soprattutto se proseguirà la fuga di capitali dalla Cina e dal mondo emergente, diventa una minaccia di crescenti pressioni deflazionistiche sulle economie sviluppate, che di certo non ne hanno bisogno. In previsione di questa problematica, i mercati sono entrati in una fase intermedia di instabilità. Questa sfida, ormai concreta, ci induce ad adottare una strategia di investimento molto prudente, alla quale ci prepariamo dall’inizio dell’anno.

Per le economie sviluppate, il rischio non è tanto l’ulteriore rallentamento economico cinese quanto un grave peggioramento della sua bilancia dei pagamenti.

Il rallentamento economico cinese è un fenomeno noto e i dati pubblicati in agosto (su attività industriale, esportazioni, investimenti) hanno solo confermato la tendenza. Ciò che invece non viene prontamente riconosciuta è la rapidità del ribilanciamento tramite il quale il contributo dei servizi al PIL supera oramai del 15% quello dell’industria. Tale ristrutturazione economica è particolarmente dolorosa per i partner commerciali della Cina e viene, a ragione, percepita come un “hard landing”, una crescita stimata oggi vicina al 5% l’anno (le sole spese di consumo aumentano di circa il 10% e l’e-commerce cresce del 38 % su base annua).

La sfida principale è altrove. La sospensione del “quantitative easing” e la prospettiva di un rialzo dei tassi di riferimento da parte della Fed hanno innescato un forte deflusso dei capitali investiti in Cina dal 2009 (in realtà il fenomeno era già iniziato nel 2003). La conseguente pressione al ribasso sul Renminbi si è ancora inasprita l’11 agosto, quando le autorità cinesi hanno annunciato l’effettivo abbandono dell’ancoraggio sistematico al dollaro statunitense, e sono state ormai costrette ad attingere alle riserve valutarie per impedire la svalutazione incontrollata dello yuan. Certamente la Cina dispone di cospicue riserve valutarie tal da poter gestire la situazione. Ma l’utilizzo di queste riserve a sostegno della propria moneta rappresenta una notevole inversione di tendenza negli ultimi sei anni. È coerente con il traguardo ambizioso della Cina di elevare il RMB al rango di moneta stabile e forte, al fine di accedere rapidamente al rango di moneta di riserva. Ma è completamente controcorrente oggi giorno rispetto al forte rallentamento dell’economia cinese e a un’economia globale ancora abituata alla creazione di moneta. Secondo alcuni studi, nei prossimi dodici mesi più di 600 miliardi di dollari potrebbero uscire dalla Cina a seguito della chiusura delle cosidette operazioni di carry trade, importanti surrogati della creazione monetaria americana degli ultimi anni. Questa pressione, prima o poi, potrebbe alla fine indurre le autorità cinesi a svalutare ulteriormente la moneta piuttosto che attingere maggiormente alle riserve valutarie. Una tale capitolazione di fronte alla pressione dei mercati sarebbe probabilmente un rimedio peggiore del male per i partner economici della Cina, poiché attraverso la svalutazione della moneta quest’ultima “esporterebbe” le pressioni deflazionistiche ai suoi partner commerciali. A questo quadro già preoccupante si aggiunge una fiducia fortemente indebolita nella capacità di gestire la situazione da parte delle autorità cinesi. Queste ultime hanno infatti già perso buona parte della loro credibilità recentemente, con la creazione poco avveduta di una bolla speculativa sul mercato azionario interno, incoraggiando acquisti speculativi da parte di privati, e con una gestione sbagliata del successivo scoppio che ha provocato la  sospensione, tuttora in atto, delle quotazioni di centinaia di titoli cinesi.

Il rallentamento economico e l’inasprimento delle condizioni di liquidità non vanno d’accordo

Ciò che rende l’intero edificio particolarmente instabile (vedasi “ Un mondo fragile” ) è che il sostegno monetario immesso nel sistema finanziario mondiale dal 2009 ha sì determinato un forte apprezzamento degli asset finanziari, ma non è riuscito a riaccendere il ritmo di crescita tuttora modesto delle economie sviluppate. Nonostante un secondo trimestre rivisto al rialzo, la crescita statunitense quest’anno supererà di poco il 2%. Anche se il miglioramento registrato nell’Eurozona sembra proseguire, difficilmente la crescita supererà l’1.5% nel 2015. Di conseguenza, in un momento in cui il sostegno dei mercati tramite iniezioni di liquidità è fragile, il rallentamento della locomotiva cinese, che impedisce l’accelerazione della crescita globale, rende vulnerabili i livelli delle quotazioni. Per di più è ormai chiaro che l’onda di liquidità immessa dalle banche centrali non è neanche riuscita a riportare sopra il livello di guardia i tassi di inflazione nei paesi sviluppati. Una recrudescenza delle pressioni deflazionistiche, già amplificate dal crollo dei prezzi dell’energia e conseguenti all’indebolimento generalizzato dei paesi emergenti e delle loro monete, rappresenterebbe quindi un’ulteriore difficoltà per le economie degli Stati Uniti e dell’Europa.

Il miraggio di un QE all’infinito

Molti investitori hanno fondato la loro fiducia nei mercati sul presupposto che una crescita economica globale debole è la migliore garanzia di un costante sostegno monetario da parte delle banche centrali del mondo sviluppato. Questa fiducia, negli ultimi cinque anni, ha portato a interpretare sistematicamente qualsiasi cattiva notizia economica come una buona notizia per i mercati. L’aumento delle fughe di capitali dal mondo emergente, in quanto fenomeno che riduce la liquidità globale, è la prima sfida che incombe su questa posizione di comodo. Inoltre, le banche centrali sanno bene che questa fuga in avanti, che persegue all’infinito una politica di creazione monetaria e che rivalorizza gli asset finanziari più velocemente di quanto non riesca a rilanciare l’attività economica, indebolisce la loro credibilità. Innanzitutto oggi quella di Janet Yellen, che in questa fine anno si trova di fronte a una decisione estremamente delicata tra continuare ancora per un po’ la fuga in avanti per proteggere l’economia statunitense dalla “scintilla” cinese, o iniziare a rialzare i tassi di riferimento per salvaguardare la credibilità della Fed, rischiando di versare olio sul fuoco.

Cosa fare?

La forte volatilità subita dagli investitori nei mercati azionari in agosto deve molto al peso delle gestioni passive e algoritmiche nonché alla copertura di ingenti posizioni in opzioni aperte, che meccanicamente hanno innescato ordini di compravendita, amplificando i movimenti del mercato. Queste eccessive fluttuazioni hanno reso trascurabile il valore aggiunto della gestione fondamentale a brevissimo termine. Ma la posta in gioco è ben maggiore. Il rischio di condizioni di liquidità globale ristrette costituisce per i mercati una minaccia che giustifica una riduzione importante dei livelli di esposizione per tutte le asset class (azioni, obbligazioni e valute). Non perdiamo di vista infatti che un ulteriore indebolimento della crescita e una  recrudescenza delle pressioni deflazionistiche non sarebbero compatibili con un mondo tuttora sovraindebitato.

Ovviamente, una tale prospettiva è sufficientemente sfavorevole da rendere i mercati riluttanti ad accettarla prontamente. Le banche centrali potranno ritardare ancora l’ora della verità, offrendo un nuovo sollievo elusivo del QE all’infinito. E le autorità cinesi potranno dimostrarsi in grado di impedire la fuga di capitali, magari con un ritorno al controllo quasi assoluto dei flussi. In tal caso, potremo forse dichiarare cessato l’allarme e tornare momentaneamente a tassi di esposizione più elevati. Ma anche in questa ipotesi sarà giustificato mantenere più che mai costruzioni di portafoglio adatte a un contesto di crescita fragile.

Scommettere sull’accelerazione del ciclo economico ci sembrerebbe oggi dare prova di cecità totale. Al contrario, in un mondo in cui le aziende capaci di generare un forte aumento degli utili saranno più che mai rare, la selezione di tali “campioni”, spesso leader mondiali in settori ad altissimo valore aggiunto, potrà fare la differenza rispetto a indici di borsa danneggiati. Allo stesso modo, nell’universo obbligazionario una selezione di emittenti privati estremamente rigorosa potrà permettere di conseguire una performance assoluta. In ogni caso, per la gestione attiva si presenta un’occasione unica di dimostrare il suo valore rispetto alla gestione passiva.

 Strategia di investimento

Valute

L’evento più importante di quest’estate è stata la svalutazione del tasso di cambio di riferimento della valuta cinese di quasi il 3%, che ha causato un’onda d’urto su tutti i mercati finanziari. Il renminbi si è successivamente stabilizzato, ma a prezzo di interventi massicci ad opera della Banca Centrale cinese. Al termine di un mese molto volatile sui mercati valutari, l’euro ha chiuso in leggero rialzo rispetto al dollaro statunitense, sostenuto dalla chiusura di posizioni speculative finanziarie basate sulla moneta unica. La nostra strategia valutaria è consistita nell’ammortizzare questo movimento aumentando l’esposizione all’euro rispetto al dollaro. Inoltre abbiamo aperto posizioni sell sulle valute asiatiche come il won coreano, sotto pressione a causa della svalutazione della moneta cinese.

Obbligazioni

Lo stress registrato sui mercati finanziari non ha generato una fuga verso asset rifugio come i Titoli di Stato. La violenta correzione dei mercati unita all’assenza di asset rifugio ha purtroppo ridotto la performance accumulata finora. I tassi dei paesi sviluppati sono rimasti globalmente stabili durante il mese. Sottolineiamo il proseguimento della forte flessione sui tassi greci a 10 anni, scesi nuovamente sotto il 10%. La strategia obbligazionaria è pertanto rimasta sostanzialmente invariata: continuiamo a effettuare regolarmente prese di profitto sui Titoli di Stato periferici europei e manteniamo le posizioni sui titoli corporate del settore finanziario.

Azioni

I mercati azionari hanno registrato una sensibile correzione nel mese di agosto. Tutte le piazze sono state interessate da un movimento il cui epicentro era in Cina. Più che il ribasso in termini assoluti, il fattore più allarmante è il fortissimo aumento della volatilità, che sottolinea la preoccupazione degli investitori, combattuti tra i timori sulla crescita globale e l’aspettativa di altre immissioni di liquidità da parte delle banche centrali. In questo contesto incerto, abbiamo ridotto significativamente l’esposizione azionaria. Se da una parte un ulteriore sostegno delle banche centrali potrebbe temporaneamente sostenere i mercati, dall’altra i nostri dubbi sull’andamento dei fondamentali economici giustificano la nostra prudenza. Le coperture sui grandi indici globali non modificano la composizione sottostante dei portafogli, che continuano a privilegiare le azioni di qualità in grado di assicurare la crescita degli utili indipendentemente dalla congiuntura globale: continueremo a cogliere la sovraperformance di questi titoli come driver di performance per le nostre strategie sulle azioni.

Materie prime 

Carmignac Commodities ha registrato una performance negativa durante il mese, ma nettamente superiore all’indice di riferimento. La sottoesposizione del Fondo, coniugata al posizionamento su titoli di qualità, ha compensato parzialmente il crollo dei mercati azionari. Questa fase di correzione ha tuttavia fatto emergere alcuni punti di ingresso interessanti, in particolare  sui titoli energetici: per esempio abbiamo aperto una posizione sulla società statunitense di E&P Synergy Resources Corporation.

Fondi di Fondi 

Grazie alla forte reattività nella gestione del tasso di esposizione, i Fondi di Fondi sono riusciti ad ammortizzare considerevolmente la correzione registrata dai mercati ad agosto. I tassi di esposizione sono stati ridotti a livelli vicini ai minimi durante il mese, per poi essere aumentati leggermente a fine mese. Inoltre, abbiamo mantenuto un’esposizione sottostante diversificata ed equilibrata per ammortizzare i picchi di volatilità registrati sui mercati.

 

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