Turchia, cosa è cambiato dopo le elezioni?

A cura di Emre Akcakmak, Membro del team di gestione di East Capital

Il 24 giugno tutti gli occhi erano puntati sulla Turchia, dove si sono tenute le elezioni presidenziali e parlamentari. La percentuale degli aventi diritto che si è recata alle urne ha raggiunto l’87%, e le elezioni hanno portato a una vittoria schiacciante di Erdoğan, che si è così assicurato già al primo turno altri cinque anni di mandato. Il presidente turco ha ricevuto il 52,5% delle preferenze, mentre l’alleanza AKP-MHP ha vinto al parlamento con il 54% dei voti. Anche se le elezioni sono state di importanza storica, non sono state un punto di svolta per gli investitori azionari, che continueranno a focalizzarsi sul modo in cui vengono affrontate le sfide economiche che la Turchia si trova ad affrontare e sulle azioni future della Banca Centrale.

Queste sono state le prime elezioni dopo il passaggio della Turchia da una sistema parlamentare a uno presidenziale, come deciso nel referendum dell’anno scorso per cambiare la costituzione. Il presidente Erdoğan, che nel corso dei 15 anni alla testa del Paese ha aumentato sempre più il suo controllo sulla Turchia, ha ormai pieni poteri sia in ambito esecutivo che giudiziario. Si è trattato di elezioni storiche anche perché sono state indette con 17 mesi di anticipo rispetto a quanto inizialmente previsto, in un tentativo da parte dell’AKP di cogliere di sorpresa l’opposizione e di anticipare i crescenti squilibri economici che rischiavano di minarne la popolarità. È tuttavia evidente che le questioni legate all’economia non finiscono qui.

Il populismo e le politiche monetarie e fiscali accomodanti sono parzialmente da incolpare per le difficoltà dell’economia turca, ma più dannose sono state le azioni – o la mancanza di azioni – della Banca Centrale Turca (TCMB), la cui credibilità è stata compromessa dall’incapacità di raggiungere per diversi anni consecutivi gli obiettivi prefissati. La stessa indipendenza della Banca Centrale è stata messa in dubbio, dal momento che il presidente Erdoğan – che sostiene una poco ortodossa tesi secondo cui più alti sono i tassi d’interesse più alta è l’inflazione, e non viceversa – ha recentemente rilasciato diversi commenti controversi sulle politiche della TCMB. La Turchia sta sperimentando un ritorno dell’inflazione (attualmente al 12% su base annua e con aspettative di crescita fino al 14% per i prossimi mesi) e un deprezzamento della valuta del 25% da inizio anno.

Ciò che preoccupa maggiormente gli investitori è il crescente deficit delle partite correnti, il più alto tra i paesi del G20, pari al 6,3% del PIL o a 55 miliardi di dollari negli ultimi dodici mesi. Solitamente lo squilibrio della bilancia commerciale era finanziato in parte dagli investimenti stranieri diretti (FDI), tuttavia questi flussi stanno venendo meno a causa delle condizioni societarie e politiche in via di peggioramento. Anche i capitali provenienti dai fondi stranieri stanno diminuendo, a causa della perdita del rating investment grade del mercato avvenuta in un contesto globale già difficile per gli emergenti a causa delle politiche monetarie meno accomodanti e della riforma fiscale USA. Le riserve lorde di valuta straniera sono diminuite e si stanno avvicinando al livello pericolosamente basso di 80 miliardi di dollari.

Il mercato registra un meno 30% in dollari, a seguito dell’impennata del 47% dell’anno scorso. Investiamo in Turchia dal 2001, è sempre stato un mercato volatile. Dopo la forte crescita del PIL nel 2017 (+7,4%) e nel primo trimestre del 2018, l’economia dovrebbe essere interessata da un brusco rallentamento nella restante parte dell’anno, con un livello di crescita stimato del 3,5%-4%. È tuttavia utile sottolineare che il sistema bancario è prudente e solido e che il management locale di molte delle società in cui siamo investiti è assolutamente qualificato per affrontare questo periodo difficile. Inoltre, il mercato turco viene attualmente scambiato con un multiplo prezzo utili pari a 7, ossia con uno sconto del 44% rispetto ai pari dei mercati emergenti, un livello che non si vedeva dal 2008. Alcuni titoli sono semplicemente troppo convenienti per essere ignorati, e siamo riusciti ad incrementare alcune posizioni ad un prezzo molto interessante. Abbiamo scelto di consolidare i nostri portafogli investendo in titoli di prima qualità, evitando un posizionamento direzionale sul risultato delle elezioni e su come il governo affronterà le sfide macroeconomiche e finanziarie.

Guardando avanti, anche se la stabilità garantita da un AKP più attento al mercato potrebbe essere ben visto dagli investitori, un restringimento delle politiche monetarie è assolutamente prioritario. La scelta, per quanto estremamente impopolare, è necessaria per contrastare gli squilibri macroeconomici e per migliorare l’appeal della Turchia agli occhi degli investitori, che dipende fortemente da finanziamenti esterni. Non bisogna tuttavia aspettarsi miracoli. Il prossimo appuntamento politico, le elezioni locali di marzo 2019, potrebbe limitare l’impegno dell’AKP per le riforme nei prossimi nove mesi. Solo successivamente, con la prospettiva di un periodo di 4 anni (2019 – 2023) senza elezioni in programma, ci si potrà concentrare sulle riforme.

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