Un ciclo come nessun altro, ma i rischi aumentano

A cura di Stefan Kreuzkamp, Chief investment Officer di Dws

I mercati stanno andando alla grande! E perché non dovrebbero? Negli Stati Uniti e in alcune parti d’Europa i mercati del lavoro sono estremamente solidi e lo stesso vale per gli utili societari, almeno per il momento. I bilanci sono robusti, i default sui prestiti sono rari, il petrolio è a buon mercato, non si rischiano rialzi dei tassi di interesse. E il Presidente americano Donald Trump è sempre pronto al dialogo, anche se qualcuno non apprezza i suoi suggerimenti, pur dettati dalle migliori intenzioni. Cos’altro potrebbe desiderare un investitore? A dire il vero, qualche idea ce l’avrei. A partire da una serie di segnali di allarme davanti agli occhi di tutti.

Il più evidente è l’inversione della curva dei rendimenti statunitense, una svolta che in passato ha spesso segnalato l’avvicinarsi di una recessione. La Federal Reserve, chiaramente nervosa, ha quindi già varato un “insurance cut”, tagliando i tassi in via preventiva. Nel frattempo, in Europa, la Bce adotterà probabilmente un nuovo pacchetto di misure monetarie nel mese di settembre, mentre iniziano a circolare nuove richieste di stimoli fiscali.

Un’altra scomoda realtà è che dalla produzione manifatturiera globale inizia a levarsi il tipico rumore di motore prossimo allo stallo. La situazione economica complessiva non è quindi rassicurante, anzi appare confusa almeno quanto i messaggi del Presidente americano, che mentre si vanta del boom economico del suo Paese chiede alla Fed di tagliare i tassi.

E Trump non è l’unico a doversi destreggiare tra una situazione economica chiaramente positiva e le numerose spie di allarme che lampeggiano sul cruscotto. A complicare ulteriormente le cose per gli investitori interviene il ricordo, piuttosto recente, di alcuni errori rivelatisi assai costosi. Chi in passato ha dato retta ai segnali di allarme, uscendo troppo presto dal mercato azionario, ci ha rimesso, perché a partire dal 2009 ogni battuta d’arresto si è dimostrata nient’altro che una breve pausa di un rally duraturo. Per questo adesso sono tutti più cauti nel predire una recessione o affermare che il mercato rialzista sia finito, anche se persino i “tori” sono consapevoli che le recessioni non si potranno evitare in eterno.

Il dilemma del divario tra economia felice e preoccupazione diffusa trova forse la sua massima espressione nella curva dei rendimenti. In agosto, lo spread tra i rendimenti dei titoli di Stato Usa a 2 e 10 anni è diventato negativo per la prima volta dal 2007. Negli Stati Uniti l’inversione dei tassi si è verificata nove volte dal 1956, e l’evento è stato in genere seguito entro due anni da una recessione. Tuttavia ci guardiamo bene dal prendere alla lettera questa evidenza storica e concludere che una recessione statunitense sia dietro l’angolo. I fattori (economici, politici, monetari, tecnici e demografici) che hanno provocato ognuna delle precedenti inversioni sono stati ogni volta diversi.

L’ascesa di debito pubblico e populismo

L’inversione in atto riflette circostanze particolarmente inedite:
1. I banchieri centrali continuano a distorcere i mercati finanziari con politiche monetarie non ortodosse, come l’allentamento quantitativo e i tassi di interesse negativi. Una delle conseguenze è che a livello mondiale ci sono oltre 16.000 miliardi di dollari di emissioni obbligazionarie con rendimento negativo, la metà di tutte le obbligazioni di categoria investment grade in circolazione al di fuori degli Stati Uniti. Questo chiaramente spinge al ribasso i tassi di interesse Usa a lungo termine, il che riduce il potere predittivo della curva dei rendimenti.
2. Le due maggiori economie al mondo sono bloccate in una disputa commerciale di cui non si vede la fine.
3. Questa disputa sta avendo ripercussioni globali. Mentre la Cina punta a stimolare l’economica interna, i Paesi che esportano materie prime come l’Australia, gli esportatori di macchinari e automobili europei e i produttori statunitensi di telefoni cellulari subiscono il contraccolpo.

Altrettanto preoccupante è la noncuranza con cui molti Paesi, e in particolare gli Stati Uniti, stanno aumentando il debito nazionale, nonché l’ascesa dei governi populisti che perseguono politiche economiche protezionistiche. La possibile reazione di questi governi in tempi economici più difficili alimenta ulteriori timori.

Non mancano poi i motivi di allarme su un orizzonte di medio periodo, ma crediamo che sia ancora troppo presto per parlare di una crisi imminente. Ci sono troppi dati positivi, risultato di una fase di ripresa che ha già raggiunto una lunghezza record. Una delle cause di questo scenario è la crescita costante del settore terziario, i cui cicli di inventario e degli investimenti non sono paragonabili, per dimensioni, a quelli del settore manifatturiero. Inoltre, l’andamento positivo dei mercati del lavoro sostiene ancora la vivacità dei consumi e il lieve rallentamento dell’economia riduce il rischio di un surriscaldamento, consentendo alle banche centrali di rimanere accomodanti.

Questo pone un dilemma per le nostre decisioni di investimento. C’è la tentazione di ritornare agli asset rischiosi, soprattutto perché non ci aspettiamo un ulteriore rallentamento della crescita economica globale per il prossimo anno. Ma i segnali preoccupanti provenienti dai mercati obbligazionari – tassi di interesse nominali negativi in Europa, tassi di interesse reali negativi negli Stati Uniti, curva dei rendimenti invertita – non possono essere ignorati.

Dove puntare (con cautela)

In sintesi, confermiamo la nostra cautela. Per le azioni vediamo un potenziale di rendimento basso a una cifra derivante prevalentemente dai dividendi, mentre in termini di aree geografiche non abbiamo forti preferenze. In una prospettiva di medio periodo non escludiamo che le azioni Usa possano continuare a sovraperformare il resto del mondo, come hanno fatto negli ultimi dieci anni, ma le loro valutazioni a premio e le stime ottimistiche sugli utili le rendono vulnerabili a possibili battute d’arresto. Non riteniamo opportuno focalizzarsi sulle azioni solo perché le alternative non sono convincenti. Da parte delle banche centrali è ormai pressoché impossibile aspettarsi sorprese positive, pertanto crediamo che solo un miglioramento generalizzato dei dati economici potrebbe far risalire il potenziale dei prezzi azionari.

In ambito obbligazionario abbiamo abbassato i nostri rendimenti target rispetto al trimestre precedente e non escludiamo ulteriori periodi di rendimenti in discesa, tuttavia ci aspettiamo che i tassi di interesse aumentino leggermente nei prossimi dodici mesi. Al momento gli investitori obbligazionari non hanno molta scelta, ma comunque investono in strumenti che offrono ancora rendimenti positivi a un livello accettabile di rischio, ovvero obbligazioni societarie investment grade e titoli di Stato Usa a lunga scadenza. Consideriamo con interesse anche selezionate obbligazioni dei mercati emergenti.

Nonostante tutti i rischi politici presenti, attualmente non ravvisiamo importanti squilibri sui mercati valutari e confermiamo la nostra previsione a 12 mesi di 1,15 dollari per euro. Qualora l’avversione al rischio dovesse aumentare, ci aspetteriamo un apprezzamento dello yen data la sua reputazione di porto sicuro. Anche la sterlina britannica potrebbe apprezzarsi se si eviterà una Brexit disordinata, in linea con il nostro centrale scenario. Per il petrolio ci aspettiamo un trading laterale, mentre l’oro potrebbe continuare il suo recente rally, anche se con meno vigore.

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