Un voto per una crescita sostenuta o maggiori rischi economici?

A cura di Viktor Nossek, Direttore della Ricerca di WisdomTree Europe

Il referendum del 4 dicembre sulla riforma della Costituzione deciderà la traiettoria di crescita a lungo termine dell’economia del Paese. Se gli italiani voteranno “Sì”, sarà più facile approvare proposte di legge in materia di lavoro, pensioni, politica industriale, ecc., accelerando in tal modo l’ambiziosa agenda di riforme dell’attuale primo ministro Renzi e quella dei futuri governi. La crescita della domanda interna sarà rafforzata. Se gli italiani voteranno “No”, rimarrà l’attuale status quo per l’economia: crescita fiacca, gravata da istituzioni lente e inefficaci nell’agire, alto tasso di disoccupazione, alto debito, ripresa della retorica populista. Una leadership euroscettica minaccerà il progetto europeo, con la possibilità che i partiti anti-establishment possano formare un nuovo governo.

In questo documento, esaminiamo le potenziali ramificazioni politiche ed economiche del voto e offriamo spunti agli investitori per un’allocazione – sia strategica che tattica – ripartita tra le principali asset class, prima e all’indomani del voto.

Le riforme costituzionali proposte

      1. Modificare la ripartizione paritaria dei poteri tra le due Camere che compongono il Parlamento riducendo i poteri del Senato (Camera alta) e aumentando i poteri della Camera dei deputati (Camera bassa) al fine di:

  •  velocizzare il lungo e laborioso processo legislativo, in cui le proposte di legge fanno la spola tra Camera e Senato e consentire che le riforme future siano attuate più velocemente;
  •  stabilizzare i governi. Il voto di fiducia della sola Camera sarà sufficiente per mantenere in carica il governo. L’assenso anche del Senato potrà essere richiesto ma non sarà più obbligatorio;
  •  snellire le istituzioni. Il numero dei parlamentari in Senato scenderà da 315 a 100.
  1. Modificare i poteri assegnati al governo centrale e a quelli locali: eliminare la sovrapposizione di competenze tra governo centrale e governi regionali, ridefinendo le rispettive responsabilità, e ridurre, se non eliminare, il potere delle province. Questo per migliorare l’efficienza e ridurre la burocrazia.
  2. Cambiare la legge elettorale: prevedere un forte premio di maggioranza, assegnando al partito più grande, in grado di raccogliere più del 40% dei voti, il 54% dei seggi alla Camera e quindi la maggioranza assoluta, al fine di consentire che le leggi siano approvate rapidamente. In assenza, tuttavia, di un veto del Senato in grado di bloccare l’iter legislativo, ciò andrebbe a creare un sistema parlamentare con pesi e contrappesi ridotti. Questa è di gran lunga la parte più controversa della riforma costituzionale, in quanto tutti i partiti, sia di governo che di opposizione, ravvisano opportunità e minacce nel premio di maggioranza concesso.

Numerose riserve espresse dai sondaggisti tengono viva l’incertezza e i mercati in tensione

Gli ultimi sondaggi e le quote per le scommesse sembrano propendere per una vittoria del “No”, ma il referendum sull’UE in Gran Bretagna a favore del “Leave”, e il risultato a sorpresa delle elezioni presidenziali USA hanno mostrato come i sondaggi possano essere inaffidabili e suscettibili ad essere letti come indicatori contrarian. La stessa cosa potrebbe ripetersi anche nel referendum italiano a causa di:

– risultati contrastanti di governi precedenti che hanno discusso riforme costituzionali in Parlamento o proposto referendum in passato;

– un ampio blocco di elettori ancora indecisi che potrebbe far pendere il risultato nell’una o nell’altra direzione;

– l’affluenza alle urne e le preferenze su base regionale: storicamente la prima è stata sempre elevata nelle regioni settentrionali dell’Italia, dove la vittoria del “Sì” appare più probabile, e scarsa nelle regioni meridionali, dove è più probabile un vittoria del “No”. Inoltre, vi sono alcuni milioni di elettori italiani residenti all’estero (e aventi diritto di voto), molti dei quali si ritiene siano a favore del cambiamento, che non sono “calcolati” dai sondaggi esistenti.

“Sì”: l’innesco della “velocità di fuga” dell’economia per una crescita sostenuta e meno debito

Se la maggioranza schiacciante dei poteri legislativi fosse affidata alla Camera dei deputati, ciò ridarebbe slancio alla ripresa economica, in quanto progetti di riforma attesi da tempo in ambiti quali bilancio, spesa per infrastrutture, fisco, sistema pensionistico e mercato del lavoro dovrebbero essere ratificati più velocemente.

Al momento le riforme non sono abbastanza radicali per stimolare un cambiamento reale. Si consideri ad esempio la riforma del mercato del lavoro di Renzi (il cosiddetto ‘Jobs Act’), entrata in vigore nel 2015 per allentare i vincoli in materia di licenziamento nelle grandi aziende, e offrire sgravi fiscali temporanei alle aziende che assumono lavoratori con contratti a tempo indeterminato. Tuttavia, poiché tale legge si applica solo ai nuovi assunti, la situazione di grandi blocchi della forza lavoro, come i lavoratori del settore privato già occupati e i 3,5 milioni di lavoratori del settore pubblico, rimane inalterata. Pertanto, ci vorranno anni perché queste riforme riducano in maniera sensibile la disoccupazione, tempo che i politici italiani non possono permettersi se desiderano che il Paese rimanga nell’area Euro.

La minaccia più grave alla permanenza dell’Italia nell’area Euro è il grande debito pubblico. Nonostante le misure di austerità draconiana, e l’avanzo primario di bilancio, l’onere di rimborso del debito incide pesantemente sulle finanze. Come illustrato nel grafico 1, negli ultimi cinque anni, il governo ha risparmiato quasi 2 punti di PIL l’anno. Per contestualizzare meglio questa politica aggressiva di rigore, si pensi che il bilancio primario come percentuale del PIL nel 2015 ha mostrato che l’Italia (+1,6%) è, assieme a Germania (+2,3%) e Austria (+1,4%), uno dei maggiori risparmiatori a livello statale nell’Eurozona: ciò però non è ancora sufficiente a ridurre il debito pubblico. Con rimborsi di interessi e capitale che superano il 4% di PIL l’anno, la crescita del PIL nominale dell’Italia dovrebbe attestarsi ben sopra il 2% in futuro per crescere più velocemente del nuovo debito accumulato, presupponendo che i risparmi a livello statale rimangano gli stessi. A meno che la crescita non acceleri, e l’Italia riesca ad emergere su un piano solido come quello dei suoi pari europei, il debito pubblico, che ha ormai superato EUR 2,2 trilioni, ovvero il 133% del PIL, rimarrà il tallone d’Achille dell’Italia e dell’Eurozona.

Le riforme costituzionali diventano ancor più necessarie dato che, senza leve per invertire tale tendenza, l’Italia è adesso vulnerabile a shock esterni fuori dal suo controllo. Ad esempio, la recente vittoria di Trump nelle elezioni USA ha causato uno spike nei rendimenti a lunga scadenza delle obbligazioni italiane nel mese di novembre, nonostante il programma di QE della BCE, e renderà più costoso il rifinanziamento del debito futuro. Alle difficoltà dell’Italia si sono andati ad aggiungere i terremoti di agosto e ottobre di quest’anno che, assieme alla crisi dei migranti – che vede l’Unione Europea totalmente incapace di impedire a migliaia di persone di sbarcare sulle coste italiane – hanno gravato sulle finanze al punto tale che il premier Renzi ha dovuto fare un passo indietro rispetto ai suoi obiettivi di disavanzo.

Sotto pressione in casa propria nello sforzo di produrre risultati tangibili a livello economico, Renzi sta mettendo a sua volta pressione sull’UE perché faccia marcia indietro sulle politiche di inasprimento fiscale, con l’ultima legge di bilancio presentata in ottobre che propone un innalzamento del rapporto deficit/PIL al 2,3% dal 1,8% per contrastare l’ascesa del populismo nel Paese. Comportandosi in maniera più populista sia in patria che all’estero, Renzi sta usando la legge di bilancio come una velata minaccia contro l’UE, che appare vulnerabile nel caso in cui un movimento euroscettico come quello dei Cinque Stelle assumesse le fattezze di un vero e proprio partito politico o facesse parte di un nuovo governo. Potrebbero poi esserci ulteriori effetti domino se partiti estremisti guadagnassero ulteriore popolarità rispetto ai principali partiti in paesi come Francia, Olanda e Germania, tutti paesi in cui si svolgeranno le elezioni politiche l’anno prossimo.

“No”: il mantenimento dello status quo genera rischi politici ed economici
In mezzo a crescenti frustrazioni da parte degli elettori sul fiscal compact europeo, è irrealistico – politicamente ed economicamente – pensare che l’Italia possa accettare altre misure all’insegna dell’austerità. In questo contesto, il referendum rappresenta potenzialmente l’ultima possibilità dell’Italia di attuare cambiamenti strutturali. Una vittoria del “No” scoraggerebbe futuri governi dal tentare riforme costituzionali per molti anni a venire, con l’Italia alla ricerca di un percorso alternativo basato, con ogni probabilità, su una crescita della spesa in deficit. Poiché Renzi sta già facendo marcia indietro sulla stretta di bilancio prevista, qualunque leader vada a sostituirlo potrà basarsi su tale precedente per accelerare lo stimolo fiscale.

L’ulteriore grave incertezza che circonda il “No” è il potenziale vuoto di potere che si andrebbe a creare se Renzi rassegnasse le dimissioni e si andasse a nuove elezioni. Si aprirebbero concrete opportunità per partiti euroscettici come il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord, che potrebbero guidare o far parte di un nuovo governo di coalizione. In particolare, sotto la guida del fondatore Beppe Grillo, il Movimento 5 Stelle potrebbe con ogni probabilità chiedere un referendum sull’Euro.
In uno scenario in cui, a seguito della “vittoria del No”, salga al potere un partito populista, le ripercussioni iniziali sui mercati finanziari non potrebbero che essere negative. È probabile che l’Euro sia oggetto di forti pressioni di vendita, poiché gli speculatori scommetterebbero sull’uscita dell’Italia dall’Eurozona e dalla stessa unione monetaria: all’orizzonte potrebbe esserci il ritorno della Lira, una maggiore inflazione e una spesa in deficit. I rendimenti dei titoli italiani a lungo termine potrebbero riprendere la loro ascesa, scavando un solco tra l’Italia e altri paesi fortemente indebitati come Portogallo, Belgio e Spagna da un lato e i paesi più sani dell’Europa core, guidati dalla Germania, dall’altro. L’epicentro di ciò è costituito dalle banche italiane che, detenendo EUR 445 miliardi di titoli governativi– per lo più italiani – nei propri bilanci, pongono il più grande rischio sistemico per l’Eurozona.
Nuovi rischi sistemici per le banche
Dal 2016, gli Stati membri dell’UE, tra cui l’Italia, devono attenersi a regolamenti che impediscono gli aiuti di stato per le banche in difficoltà, a meno che non venga prima imposto il cosiddetto “bail-in” su azioni e debito subordinato, in modo da ridurre il conto finale per i contribuenti. L’applicazione della regola “nessun bail-out senza bail-in” per i salvataggi bancari nell’Eurozona significa che il bail- in dei quattro istituti di credito regionali quest’anno ha avuto un costo enorme per migliaia di singoli risparmiatori che, oltre ad essere titolari di un conto presso questi istituti, ne possiedono in genere anche le obbligazioni. Si stima che le famiglie e gli investitori al dettaglio in Italia detengano circa 200 miliardi di Euro di obbligazioni bancarie, il che rappresenta uno dei principali ostacoli per il governo italiano nel momento in cui si trova ad affrontare la ristrutturazione del settore bancario, in quanto deve evitare di infliggere perdite potenzialmente molto più grandi alle famiglie e agli individui. Gli sforzi per ricapitalizzare le banche utilizzando fondi di investitori privati, strutture fuori bilancio, riduzione dei costi e azioni di consolidamento, sono stati insufficienti per ristabilire la fiducia. Vedendo le difficoltà di Renzi, e il duro colpo alla sua popolarità, i futuri leader d’Italia faranno affidamento sugli aiuti di Stato come unico mezzo per sopravvivere politicamente alla tempesta.
La reazione dell’UE a una “vittoria del No”: allentamento dei vincoli di bilancio e delle regole sul bail-in ed ampliamento del QE

È per queste ragioni che, al fine di preservare la stabilità politica, l’UE darà probabilmente il via libera alla legge di bilancio di Renzi e a ulteriori misure di stimolo fiscale introdotte da chiunque presieda il prossimo governo. La Francia potrebbe fornire il proprio appoggio, visto che anch’essa deve fare i conti con una crisi di migranti che sta cominciando a diventare politicamente scomoda per il presidente Hollande. La solita retorica sul rigore fiscale da parte della Germania e degli altri paesi nordici dell’Europa è destinata a indebolirsi, nel momento in cui si stanno intensificando le pressioni da parte dei partiti della sinistra populista nel proprio Paese e contro l’unione politica dell’Europa nel suo complesso.

La “vittoria del No” potrebbe potenzialmente spingere l’UE all’azione, nel tentativo di contenere un aumento dei rischi sistemici: se Renzi si dimette, ne consegue un periodo di instabilità politica, i rendimenti obbligazionari potrebbero impennarsi e l’Euro finire sotto attacco.
C’è ragione di credere che – se non per motivi economici, quanto meno per spirito di conservazione – l’UE, guidata dalla Germania, raddoppierà gli sforzi a favore di una ristrutturazione del settore bancario italiano, sostenendo un’interpretazione più morbida delle regole del bail-in (cioè più aiuti di stato) nello sforzo di accelerare la ricapitalizzazione delle banche più deboli. A meno che non siano usati più soldi dei contribuenti per aiutare le banche a ricapitalizzarsi, la fiducia tra i banchieri stessi, insieme a quella degli investitori, potrebbe venire nuovamente a mancare. Nel caso in cui ciò portasse a un congelamento del mercato interbancario, l’intera economia italiana potrebbe bloccarsi, con costi proibitivi non solo per l’Italia ma anche per il blocco europeo.
La BCE, dal canto suo, non starà certamente a guardare, in quanto senza banche essa non ha alcun mandato. Utilizzando il QE in chiave espansiva, con un aumento e un prolungamento degli acquisti mensili, la BCE cercherà di contenere i rendimenti crescenti sul debito governativo, ricalibrando in tal caso gli acquisti di bond e indirizzandoli più verso il debito italiano, ove necessario. Verranno inoltre spalancati i canali di liquidità per garantire il corretto funzionamento dei mercati monetari e dei prestiti interbancari, non lasciando a secco nessuna grande banca.
Asset allocation: una “vittoria del Sì” si traduce in un rialzo per la maggior parte delle asset class italiane e per l’Euro

  • Il ripristino della fiducia nei BTP italiani, scossa dopo la vittoria elettorale di Donald Trump negli USA, sarebbe potenzialmente in grado di invertire lo spike registrato nel mese di novembre nei rendimenti dei bond governativi italiani a lunga scadenza. La stabilità politica e un’agenda a favore della crescita dovrebbero tradursi in condizioni fiscali migliori per l’Italia, assieme a probabili endorsment da parte delle agenzie di rating, rispecchiate in un potenziale upgrade del debito italiano.
  • È probabile che il sentiment relativo alle banche italiane migliori nettamente, considerate le valutazioni profondamente depresse, circa metà del valore di libro, a cui scambiano le relative azioni. Con migliori aspettative di crescita economica a lungo termine, le banche italiane avrebbero meno problemi nell’estendere nuove linee di credito, e le imprese e le famiglie meno problemi nel richiederle. Prestiti sicuri in rapido aumento contribuirebbero ad accelerare la riduzione dei crediti deteriorati (c.d. “NPL”) delle banche.
  • La capitalizzazione di mercato dell’indice FTSE MIB, fortemente orientata verso i titoli finanziari, rende tale indice sensibile alla variazione dei tassi di interesse. Le banche, le assicurazioni e le case di investimento che detengono grosse quote di titoli di stato italiani trarranno probabilmente beneficio da rendimenti obbligazionari in discesa. Inoltre i settori energetico e delle utility potrebbero giovarsi delle intenzioni del governo di accelerare sulla strada delle privatizzazioni, nel momento in cui cercasse di ridurre le proprie partecipazioni societarie.
  • L’Euro potrebbe rafforzarsi, considerato che le migliori condizioni per una crescita dell’economia, la più veloce ristrutturazione delle banche e la stabilità politica dovrebbero ripristinare la fiducia nell’Unione monetaria. Le aspettative di un tapering del QE da parte della BCE potrebbero aiutare l’Euro a recuperare molto del terreno perduto nei confronti del dollaro e di altre valute. Considerato un bene rifugio, l’oro dovrebbe reagire in maniera negativa a tali condizioni.
  • Le azioni delle small cap europee dovrebbero beneficiare di un ritrovato sentiment positivo degli investitori e del posizionamento a favore del rischio (“risk on”) intorno al tema della crescita a lungo termine stimolata dalla domanda interna in Europa.
    Asset allocation: una “vittoria del No” si traduce in un ribasso per la maggior parte delle asset class italiane e per l’Euro
  • Lo spread tra BTP e Bund è incline ad ampliarsi in presenza di un contesto politico instabile dove non c’è spazio per i vincoli di spesa. Le agenzie di rating potrebbero essere inclini a rivedere verso il basso la raccomandazione sull’Italia, se aumenti della spesa in disavanzo non fossero accompagnati da riforme strutturali.
  • Un sentiment pessimista sul debito italiano avrebbe inizialmente un impatto negativo anche sulle banche, in quanto esse dovranno probabilmente registrare perdite nel book di negoziazione e assistere a un deterioramento delle condizioni di prestito interbancario anche in presenza di un aumento del proprio costo del debito.
  • I titoli industriali italiani potrebbero soffrire se il governo decidesse di rimandare la vendita delle proprie partecipazioni in un contesto di mercato poco incline all’assunzione di rischi. Alcuni settori strategici potrebbero essere soggetti a un maggior intervento governativo e a interferenze da parte di partiti populisti di sinistra chiamati a formare il governo.
  • Il sentiment sull’Euro è destinato a peggiorare nel breve termine a causa dell’instabilità politica in Italia, con possibili ipotesi di un’uscita dell’Italia dall’Eurozona in caso di un governo guidato da euroscettici che decida, un domani, di sottoporre la questione a referendum. Politiche monetarie e fiscali espansive saranno probabilmente causa di ulteriore debolezza iniziale ma, nel lungo periodo, potranno essere fattori trainanti di stabilizzazione per il sistema bancario e l’economia reale.
  • Nel lungo termine, i titoli degli esportatori europei dovrebbero beneficiare di una svalutazione dell’Euro nella misura in cui essa sia controllata e non vada ad alimentare un posizionamento di avversione al rischio (c.d. “risk-off”) da parte degli investitori. Le probabilità di un’alta volatilità dell’Euro dovrebbero spingere gli investitori stranieri che cercano un’esposizione verso l’Europa a coprire la propria esposizione azionaria, mentre i titoli finanziari in questo contesto sono visti come settore da sottopesare.

 

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