Una sfida per l’Italia: cogliere le opportunità offerte dal recovery fund

A cura di Alberto Foà, Presidente di AcomeA Sgr

A fine maggio la Commissione Europea ha pubblicato la sua proposta sul recovery fund, creato all’interno del 2021-2027 Mff, il budget settennale della Ue. L’elemento essenziale è un fondo di emergenza da 750 miliardi (5.6% del Pil Ue), chiamato Next Generation Eu. Lo scopo del Fondo è quello di “sfruttare il pieno potenziale del bilancio dell’Unione Europea per mobilizzare gli investimenti e anticipare il supporto finanziario nei primi anni della fase di ripresa”.

La Commissione emetterà debito sul mercato pari a 750 miliardi ed erogherà 2/3 di quanto raccolto (500 miliardi) sotto forma di grants (trasferimenti) e 1/3 (250 miliardi) sotto forma di prestiti ai singoli paesi. Il volume delle emissioni per finanziare il recovery fund è oltre dieci volte superiore a quanto emesso finora dalla Commissione (ca. 70 mld). Il Recovery Fund erogherà i fondi in gran parte tra il 2021-2024. Il debito verrà emesso con varie scadenze e verrà rimborsato tra il 2027 e il 2058. Per i 500 miliardi di grants, l’onere del rimborso potrebbe gravare proporzionalmente al peso dei paesi nel Pil europeo (ma, come vedremo, non è certo). Per i 250 mld di prestiti, ogni paese ovviamente restituirà quanto preso in prestito.

Per l’Italia, alcune simulazioni parlano di circa 87 miliardi di trasferimenti e 91 miliardi di prestiti, in totale 178 miliardi, quasi il 10% del Pil. Alcuni critici hanno sottolineato che è un numero che sembra grande, ma inadeguato alle esigenze italiane: i prestiti (91 miliardi) andranno comunque restituiti per intero; e, comunque, l’Italia dovrà contribuire con la sua quota (pari a 55 miliardi) per il rimborso del debito contratto dall’Unione Europea a fronte dei 500 miliardi di trasferimenti. Questo lascerebbe un beneficio netto di “soli” 32 miliardi (la differenza fra 87 e 55 miliardi), pari a poco meno del 2% del Pil, che, “spalmato” su 7 anni, equivale allo 0,3% per anno. Troppo poco per fare la differenza. Ma questo pessimismo appare fuori luogo per almeno tre ragioni:
1) il debito verrà rimborsato dopo il 2027 ed entro il 2058, di certo non a breve e comunque ben oltre l’utilizzo dei fondi stessi. La Commissione ha aggiunto inoltre che potrà introdurre nuove imposte comunitarie (carbon tax, digital tax), che graverebbero anche sulle multinazionali estere. Pertanto, non è certo che l’onere del rimborso del bond peserà interamente sui singoli bilanci nazionali dei paesi Ue.
2) La Commissione ha l’opzione di ri-emettere il debito in scadenza. In quel caso, l’Italia continuerebbe a contribuire per la sua quota degli interessi posticipando il momento in cui versare la sua quota per il rimborso del capitale. Visto che presumibilmente la Commissione si finanzierà a tassi vicini allo zero, stiamo parlando di cifre irrisorie.
3) L’Italia potrebbe inoltre risparmiare qualora decidesse di finanziarsi presso la Commissione piuttosto che sul mercato. Il differenziale tra l’emissione oggi di un Btp a 20 anni e di un titolo della Commissione si potrebbe aggirare intorno a 150 punti base (1,5%), che su 91 miliardi equivalgono a un risparmio di circa 1,4 miliardi all’anno.

Rimangono ancora dei nodi da sciogliere che vanno al di là dei numeri. Come potremo utilizzare questi fondi? E soprattutto, saremo in grado di farlo? Sul come spendere le risorse, la Commissione parla di tre aree: 1) supporto alla ripresa con particolare attenzione su riforme e investimenti pubblici; 2) aiuti al settore privato (anche tramite garanzie o iniezioni di capitale); 3) spese sanitarie. Chiaramente, parlando di fondi comunitari, l’Italia dovrà presentare progetti di spesa e farli approvare, come sempre avviene.

Sulla questione della capacità del Sistema Italia di assorbire risorse Ue, nei prossimi 7 anni potrebbero confluire risorse extra pari al 10% del Pil, da ripagare nel medio/lungo periodo. E, presumibilmente, questa iniezione di liquidità si concentrerà nei prossimi 3-4 anni. Per l’Europa, gli ultimi numeri sull’absorption rate per il budget in corso (2014-2020) sono 48% in Germania, 52% in Francia, 38% in Spagna e Italia. Le regole sull’utilizzo dei fondi strutturali prevedono che, qualora un Paese non abbia sfruttato pienamente i fondi assegnati nei 7 anni del budget, esso possa richiedere e utilizzare i fondi anche nei 3 anni seguenti alla fine del budget di riferimento. E infatti, normalmente, si assiste ad un’accelerazione dei progetti presentati dai Paesi ed approvati dalla Ue proprio nei 3 anni seguenti alla fine dei 7 anni di budget. Inutile dire che i progetti presentati “in extremis” per non perdere i fondi assegnati sono di minor qualità, sia per l’ovvia osservazione che fare gli investimenti prima è meglio che realizzarli dopo, specie in un contesto di domanda aggregata debole, sia perché, presumibilmente, non hanno lo stesso respiro di quelli presentati per tempo ma vengono presentati in tutta fretta giusto per non lasciare un’opportunità completamente sprecata.

Per l’Italia in particolare, per il budget in corso (2014-2020) stiamo parlando (dati Commissione giugno 2020) di un utilizzo cumulativo di 16,8 miliardi di fondi strutturali a fronte di disponibilità di 44.7mld. La differenza (circa 28 miliardi) equivale all’1,6% del Pil annuale. L’Italia avrà tempo fino al 2023 per utilizzare a pieno questi fondi, ma va fatto notare che anche nel budget precedente (2007-2013) il tasso di utilizzo in Italia non è mai arrivato al 100%, a differenza di Francia, Spagna, Portogallo e Grecia ad esempio.

Voltiamo pagina. Durante gli ultimi anni, l’Italia ha dovuto tenere i conti in ordine per mantenere il suo avanzo primario intorno all’1,5% del Pil nonostante una congiuntura difficile. Per fare questo, il governo ha tagliato la spesa pubblica per investimenti dal 3,7% del Pil (2009) al 2,3% nel 2019. Nello stesso periodo, gli investimenti pubblici in rapporto al Pil in Germania sono saliti e in Francia sono scesi molto meno che in Italia. In questo contesto, l’utilizzo completo e tempestivo dei fondi strutturali per l’Italia sarebbe stato certamente un contributo importante per frenare la discesa degli investimenti.

Sapremo fare tesoro degli insegnamenti di altri paesi europei che da anni hanno messo in piedi vere e proprie task force per assicurarsi che i fondi vengano utilizzati tempestivamente e in pieno? Riusciremo a darci una strategia e a mettere insieme un piano di medio periodo per realizzare quelle infrastrutture di cui si parla sempre, per impostare la scuola, la ricerca e la formazione per fare fronte alla competizione internazionale, un piano idro-geologico di tutela del nostro territorio, per migliorare la sanità, digitalizzare la giustizia e la pubblica amministrazione, e migliorare la viabilità e la rete ferroviaria al Sud? Sono queste le vere questioni che il recovery fund pone alla nostra classe dirigente. Risorse per investimenti pari al 10% del Pil costituiscono un’opportunità epocale, che non va sprecata.

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