Usa-Cina, la guerra dei dazi si allarga alle Borse

A cura di Anthony Chan, Chief Asia Investment Strategist di Union Bancaire Privée (Ubp)

Le attese dei mercati per un “mini” accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina in ottobre sono state deluse dallo spettro di una guerra finanziaria del presidente americano Donald Trump contro la Cina. Si è infatti diffusa la notizia che l’amministrazione Trump stia pianificando di limitare lo sviluppo finanziario della potenza cinese in tre diversi modi:

– Attraverso il delisting degli American Depositary Receipt (Adr) dalle borse Usa
– Contenendo l’esposizione dei portafogli Usa ad asset cinesi (azioni e bond) attraverso i fondi pensioni statali
– Limitando la presenza di società cinesi sugli indici azionari globali a gestione statunitense

Sebbene non vi sia alcuna conferma ufficiale, il Dipartimento del Tesoro americano ha dichiarato che non sono in programma azioni per bloccare le quotazioni di società cinesi “in questo momento”. La dichiarazione ha solo incrementato il disagio degli investitori che temono, al di là delle dispute commerciali, il prolungarsi di una rottura tra Stati Uniti e Cina nel lungo periodo. Il prossimo livello di confronto potrebbe infatti andare oltre il settore tecnologico per estendersi a quello finanziario.

L’impatto potenziale sullo sviluppo finanziario della Cina potrebbe essere profondo se le misure di cui sopra fossero d’improvviso pienamente attuate. A fine settembre 2019, le azioni Adr cinesi ammontavano a 1.200 miliardi di dollari, pari al 7% della capitalizzazione azionaria statunitense. Secondo una ricerca di J. P. Morgan, gli investitori statunitensi rappresentano in media il 38% del mercato. L’esposizione degli investitori statunitensi alle società tecnologiche e di comunicazione informatica è ancora più elevata.

Dal punto di vista degli Stati Uniti, gli investimenti di portafoglio in asset cinesi (sia nella Cina continentale che sui mercati di Hong Kong) sono rimasti modesti. L’investimento ammonta a circa 375 miliardi di dollari in azioni (4,2% delle partecipazioni azionarie offshore degli Stati Uniti) e a soli 20 miliardi di dollari in obbligazioni (0,6% della loro esposizione internazionale).

Tuttavia, il fondo pensione governativo americano è il più grande al mondo, con 15,6 mila miliardi di dollari di asset in gestione nel 2018. I dettagli sull’allocazione non sono disponibili, ma una modesta esposizione alla Cina dell’1-2% equivale a 150-300 miliardi di dollari, il che ha un peso sui mercati cinesi (per esempio, è comparabile alla capitalizzazione corretta per il flottante dell’MSCI Cina pari a circa 1,7 mila miliardi di dollari).

La strategia di isolamento degli Usa dalla Cina

Limitare le azioni cinesi negli indici globali sarebbe anche un grosso colpo per la Cina in un momento in cui Pechino è determinata ad aprire ulteriormente i mercati finanziari interni. Quest’ultimo aspetto è evidenziato dalla recente rimozione delle quote per gli investitori istituzionali esteri qualificati (programma QFII) e quelle per gli investitori istituzionali esteri qualificati autorizzati a operare in Reminmbi (programma RQFII) volta a incoraggiare maggiori afflussi globale.

In effetti, di recente è emerso un vento contrario di questo tipo. Il Financial Times Stock Exchange Index (Ftse) ha sorprendentemente rimandato l’attuazione della decisione presa il 27 settembre di includere quest’anno le obbligazioni cinesi nel suo indice globale (a fronte della scelta presa in precedenza da Bloomberg/Barclays e J.P. Morgan di fare altrettanto per i loro rispettivi indici obbligazionari globali).

A nostro avviso, queste misure sembrano considerazioni strategiche a lungo termine e parte della strategia di isolamento degli Stati Uniti nei confronti della Cina, piuttosto che misure di rottura imminente.

La misura più efficace per gli Usa sarebbe in realtà di rendere più stringenti gli standard e le normative sulle quotazioni cinesi in futuro, piuttosto che impedire improvvisamente a un Paese di quotarsi in borsa. A meno che le tensioni non si acutizzino e non siano soddisfatte le condizioni per cui gli Stati Uniti siano legittimati a dichiarare un’emergenza nazionale (e evocare l’International Emergency Economic Power Act, Ieepa), le restrizioni finanziarie dirette alla Cina e il divieto di accesso della stessa ai mercati finanziari statunitensi rappresentano misure estreme.

Lo scenario migliore, tuttavia, è che questa potrebbe essere una tipica tattica negoziale di Trump per alzare la posta in gioco e aumentare la pressione sulla Cina. Nel complesso, ci aspettiamo che l’azionario resti sotto pressione e che si muova lateralmente nelle prossime settimane, a meno che non emergano prospettive più costruttive sul fronte commerciale con ulteriori concessioni da entrambe le parti.

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