Usa, salari in accelerazione. E i margini?

Di Olivier De Berranger, Chief Investment Officer di La Financière de l’Echiquier

Il principale tema di preoccupazione durante l’anno, prima che si agitasse sui mercati lo spettro del protezionismo, era stato quello dell’occupazione americana e, in particolare, dell’inflazione salariale. Attestatasi a febbraio su un livello ben superiore alle attese aveva alimentato il timore di un’accelerazione, o addirittura di una sbandata, dell’inflazione negli USA nonché di una conseguente aggressività della stretta monetaria da parte della FED. Se la reazione degli investitori è stata indubbiamente esagerata, l’episodio ha avuto il merito di ricordarci la tematica dell’inflazione.

Nonostante i report sull’occupazione evidenzino tutti dati molto solidi con una riduzione costante del tasso di disoccupazione e 200.000 posti di lavoro circa creati in media ogni mese, l’inflazione salariale è rimasta moderata. A spiegare il fenomeno sono, da un lato, l’innalzamento dei redditi delle famiglie a seguito della riforma fiscale concentrata all’inizio dell’anno che aveva quindi limitato le richieste di aumenti salariali, e dall’altro, il rientro sul mercato del lavoro di persone che ne erano escluse da tempo e con pretese salariali minori.

Eppure, la versione fornita dalle aziende era diversa. Nelle indagini dell’Institute for Supply Management (ISM), il costo del lavoro era indicato come uno degli elementi che maggiormente contribuiscono all’aumento dei prezzi pagati. Anche le piccole aziende interrogate dalla federazione americana dei lavoratori indipendenti (NFIB) segnalavano forti tensioni salariali e difficoltà, in alcuni casi, a reclutare. Queste indagini aggregate dimostravano un’inflazione salariale più alta rispetto a quella evidenziata fino allora nei dati del Bureau of Labor Statistics (BLS).

Queste osservazioni sono state confermate dall’ultimo report del BLS, pubblicato venerdì scorso. Il salario medio orario è in effetti cresciuto dello 0,4% ad agosto contro una previsione allo 0,2%. In un anno ha raggiunto il 2,9% anche se era dato stabile al 2,7%. Il calo del tasso di partecipazione crea una pressione rialzista sui salari mentre la stagnazione del numero di ore lavorate mediamente e la flessione del tasso di sottoccupazione producono un effetto piuttosto ribassista. In altre parole, si tratta proprio di una «vera» inflazione salariale e non di un semplice effetto di massa.

Una volta che gli aumenti di reddito legati alla riforma fiscale saranno stati assorbiti, nei prossimi mesi i salari americani continueranno ad accelerare. La domanda cruciale consiste ora nel capire se le aziende riusciranno a ribaltare questi aumenti dei costi sui loro prezzi di vendita. In caso affermativo, i prezzi al consumo continueranno a crescere giustificando la prosecuzione della stretta monetaria avviata dalla Fed. In caso contrario, a soffrire saranno i margini aziendali. In fin dei conti, superato l’effetto positivo della riforma fiscale, lo stesso potrebbe rivelarsi molto negativo per i risultati aziendali.

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!